Testimonianze: Conterno G.Battista - Voena Gino - Viotto Rino - Avv. Camillo Piacenza
Il racconto di mio padre, Conterno G.Battista
Quel 5 luglio 1944 era un
mercoledì come tanti. Come tanti altri in tempo di guerra.
Ma un po’ prima di mezzogiorno,
in paese si sparse velocemente la voce: “I tedesch, i tedesch”. Infatti, una
colonna di nazifascisti proveniente da Carrù si stava dirigendo verso
Farigliano.
Conterno G.Battista (1930-2022), si trovava come al solito nell’officina di "Cursin" (Andrea
Corsino), in via dell’Asilo, ad imparare il mestiere di fabbro. Così ricorda quella sua giornata.
«Ho sentito un gran trambusto per strada,
allora sono uscito a vedere cosa stesse succedendo, c’erano bambini che
correvano, forse inconsciamente, mentre uomini e ragazzi scappavano verso le
colline, i tedeschi erano già sul piano della Mellea. Mi sono voltato verso l’asilo,
l’orologio sulla facciata segnava le 11.30 esatte. Cosa fare? In
officina erano spariti tutti, decido di andare a casa, dal “ciuchè” (Piazza
S.Giovanni). Mi incammino, ma quando
arrivo in piazza invece di proseguire verso la Chiesa, svolto a destra, verso
la strada che porta a Carrù, dopo pochi metri sono al curvone che si affaccia
sul Tanaro. A quell’epoca la vegetazione era poca, li vedevo bene, erano già
nella discesa della Calcinera. Autoblindo e camion. Ma proprio in quel momento...
ta-ta-ta-ta-ta ta-ta-ta-ta-ta, le
mitragliere hanno iniziato a sparare sulle case e verso la collina. Non ci
penso un attimo, torno indietro, costeggio a raso il muro dell’attuale
consorzio agrario e proseguo verso casa».
Quelle prime mitragliate
falciarono due civili, Giovanni Mancardi, per tutti “Balin” di 82 anni seduto
sul muretto del cantone, a pochi metri da dove era arrivato mio padre e
Giovanni Taricco detto il Martinet di 86 anni che stava rincasando. Colpevoli
di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
«Quando sono arrivato dal “ciuchè” invece di andare da mia madre sono
andato a casa di mia sorella Rina che abita a pochi metri da noi, ho fatto le
scale e da dietro un muretto osservavo il corso del Tanaro, in quel periodo in
magra; parecchi tedeschi lo stavano attraversando a piedi e si dirigevano verso
il rio Lupo per poi salire in paese».
Il ponte stradale era stato fatto "saltare", dai partigiani, qualche giorno prima. Nello stesso momento altri militari guadavano il fiume nella
zona della stazione, era la classica manovra di accerchiamento.
«La notizia era già arrivata anche qui, mia sorella era rimasta sola con
il figlio Franco di appena un anno, suo marito Giuseppe e il fratello di
questi, Ettore[1],
erano scappati verso le colline. L’altra mia sorella Maria “spedita” da mia
madre in Cornole, con le sue amichette. Mio padre, forse ancora all’oscuro di
tutto, dal mattino presto si trovava nella vigna in Carpenea. All’appello mancava soltanto
l’altra mia sorella, la più piccola, Lidia, che
era all’asilo.
E proprio di
lei, mia madre era preoccupata, infatti mi disse “vai a prenderla e portala a
casa”. Avrei dovuto rifare praticamente
la stessa strada di poco prima. Non senza timore mi incammino. Arrivato
in prossimità della Chiesa, vedo una gran confusione, soprattutto nella parte
bassa della piazza, ormai i tedeschi erano in paese, spaccavano porte,
finestre, tutto quello che trovavano,
entravano nelle case e saccheggiavano. Le mitragliere, dalla Calcinera, non sparavano più». Anche perché avrebbero rischiato di “spararsi addosso”.
«Con cautela, sono riuscito ad arrivare all’inizio di via Asilo, passo
ancora davanti all’officina che avevo
lasciato poco prima. Proseguo indisturbato, ma quando sono ormai a pochi
metri dalla scuola materna vedo un tedesco
all’angolo di via Fornace, sdraiato a terra, i piedi appoggiati al muro della
Chiesa della Madonna del Pilone, la mitragliatrice davanti a lui. Da quella
posizione controlla le vie d’accesso al paese. Mi urla qualcosa, faccio finta
di non sentire e proseguo, urla più forte, allora mi fermo e chiedo notizie dei
bambini, capisce e mi indica la zona della stazione, del ponte... Domando
ancora, ma questo impugna la mitragliatrice e la gira verso di me, continua ad
urlare, ero convinto sparasse. Tremavo come una foglia, spaventato, non sapevo
come comportarmi. In quell’attimo sentii una voce dentro di me: “fai lo scemo,
balla, canta...”. E così ho fatto, ballavo, cantavo e nel mentre
indietreggiavo, senza mai voltargli le spalle. Chissà cosa avrà pensato. Appena
è scomparso dalla mia vista, mi sono voltato e sono corso via».
I bambini e le suore dell' asilo,
erano effettivamente stati portati oltre il ponte della ferrovia. Nello stesso
posto avevano radunato anche donne e vecchi, prelevati in paese, in tutto 224
persone. Tenuti in ostaggio contro eventuali azioni partigiane. C’era anche il parroco di Farigliano, Don Cafasso,
tornato due anni prima dal confino.
Ancora mio padre: «Con il nodo in gola sono riuscito ad arrivare in piazza, la confusione era sempre tanta, entravano ed uscivano da ogni abitazione, continuavano a spaccare tutto. Ad un certo punto sento una mano sulla spalla. Noo... Un altro tedesco. Era alto, grosso, sembrava meno inferocito dell’altro, addirittura accenna un leggero sorriso. Con il capo mi indica di seguirlo in direzione della Chiesa. Il percorso che devo fare io. Tra me e me ho pensato “saprà dove abito?”. Ma no, come poteva saperlo. Lo seguo. Passiamo davanti alla fontana, poi alla Speranza (trattoria), poco oltre c’era la bottega del calzolaio Cotella, era ovviamente deserta, qui il tedesco si ferma, entra e ne esce con quattro o cinque paia di scarpe, me le mette tra le braccia e indica di andarmene. Non vedevo l’ora. Scendo la scalinata davanti alla Chiesa e appena svoltato l’angolo butto tutto e corro verso casa. Anche questa “era andata...”. Ma adesso avrei dovuto dare la brutta notizia a mia madre: mia sorella Lidia era stata portata via».
Ancora mio padre: «Con il nodo in gola sono riuscito ad arrivare in piazza, la confusione era sempre tanta, entravano ed uscivano da ogni abitazione, continuavano a spaccare tutto. Ad un certo punto sento una mano sulla spalla. Noo... Un altro tedesco. Era alto, grosso, sembrava meno inferocito dell’altro, addirittura accenna un leggero sorriso. Con il capo mi indica di seguirlo in direzione della Chiesa. Il percorso che devo fare io. Tra me e me ho pensato “saprà dove abito?”. Ma no, come poteva saperlo. Lo seguo. Passiamo davanti alla fontana, poi alla Speranza (trattoria), poco oltre c’era la bottega del calzolaio Cotella, era ovviamente deserta, qui il tedesco si ferma, entra e ne esce con quattro o cinque paia di scarpe, me le mette tra le braccia e indica di andarmene. Non vedevo l’ora. Scendo la scalinata davanti alla Chiesa e appena svoltato l’angolo butto tutto e corro verso casa. Anche questa “era andata...”. Ma adesso avrei dovuto dare la brutta notizia a mia madre: mia sorella Lidia era stata portata via».
Intanto i tedeschi si
disseminarono nelle vie del paese, ogni casa veniva controllata e depredata. Ma
l’apice della tragedia doveva ancora arrivare.
«Avevo capito che stavano appiccando il fuoco, da casa nostra si vedevano le prime nubi di fumo nero provenire dal centro del paese. Ero davanti all’abitazione dell'altra mia sorella, Rina, quando vidi poco lontano un tedesco, mi avvicinai, ormai ero abituato ad aver che fare con loro, lo portai davanti casa e lo supplicai di non bruciarla, “c’è un bambino piccolo” gli dissi. Mi fece capire che avrebbe dovuto scrivere qualcosa sulla facciata, corsi a casa, presi un piccolo barattolo con due dita di minio (vernice antiruggine), glielo portai, scrisse “nicht Feuer”. Lo trascinai anche davanti a casa mia, il minio era finito, trovai del carbone e con questo scrisse la stessa cosa. Pensai: “forse riusciamo a salvare le due abitazioni”». Ma non andò proprio così.
«Avevo capito che stavano appiccando il fuoco, da casa nostra si vedevano le prime nubi di fumo nero provenire dal centro del paese. Ero davanti all’abitazione dell'altra mia sorella, Rina, quando vidi poco lontano un tedesco, mi avvicinai, ormai ero abituato ad aver che fare con loro, lo portai davanti casa e lo supplicai di non bruciarla, “c’è un bambino piccolo” gli dissi. Mi fece capire che avrebbe dovuto scrivere qualcosa sulla facciata, corsi a casa, presi un piccolo barattolo con due dita di minio (vernice antiruggine), glielo portai, scrisse “nicht Feuer”. Lo trascinai anche davanti a casa mia, il minio era finito, trovai del carbone e con questo scrisse la stessa cosa. Pensai: “forse riusciamo a salvare le due abitazioni”». Ma non andò proprio così.
«Non trascorse molto tempo che arrivarono. Questa volta erano in due.
Uno di essi aveva il lanciafiamme, si diressero subito verso la casa di mia
sorella, e dopo aver visto la scritta, grande e ben visibile, parevano belve
inferocite, ma rinunciarono ad entrare. Adesso toccava a noi, io e mia madre
eravamo sulla soglia della porta, feci notare loro la scritta, ma non servì a nulla. Salirono
le scale ed entrati nelle prime stanze cominciarono a “sputare fuoco”. A questo
punto mia madre, gridando, si scaraventò contro uno di loro, ma questi con il
calcio dello Steyr (MP 40) la gettò a terra.
Tentai di proteggerla, le dissi: “stai zitta, stai zitta che ci ammazzano
tutte e due”. Il fuoco divampava con facilità in tutte le camere e nel fienile. Pochi
minuti ed i due uscirono imprecando e
sghignazzando. Il loro sporco lavoro l’avevano svolto. Per fortuna, noi eravamo salvi».
Nell'abitazione
accanto a quella di mio padre abitavano alcuni sfollati, in questo caso
provenienti da Genova, ma in Farigliano
vi erano circa 400 di queste persone arrivate da ogni dove in cerca di un
tetto. Tra questi sfollati c’era anche la famiglia di Plinio Michetti, di
Torino, già allora famoso liutaio,
divenuto, col passare degli anni, conosciuto in tutto il mondo per i suoi
violini. Suo figlio, Leonardo Michetti, (vedi anche in questo capitolo) lo ricorda così: “Nel 1925 si trasferì definitivamente a Torino, dove nel 1930 nacque il figlio Leonardo, lo scrivente. Fu attivo con continuità come liutaio almeno fino al 1968, in particolare anche durante la seconda guerra mondiale dal 1940 al 1945. Nel 1944 le truppe tedesche diedero fuoco, fra gli altri, al paese di Farigliano (CN), dove la famiglia era sfollata, e un baule contenente i suoi violini fu da me salvato nell’incendio della casa”.[2]
Anche altre case, in piazza San
Giovanni, bruciavano, era un andirivieni di persone che cercavano di spegnere
il fuoco, ma cosa si poteva fare avendo a disposizione solo secchi di acqua.
Poco o nulla.
«Cercai di salvare qualcosa, ricordo di aver gettato dalla finestra un tavolino in legno, lo conservo tutt'ora, poi, chissà perché, inconsciamente ho trascinato fuori dal portico un pesante incudine, forse l'unica cosa che non avrebbe subito il danno del fuoco. Anche le mucche feci uscire, invece il piccolo vitellino non ne voleva saperne di muoversi. Uscì da solo poco dopo.
Intanto i primi travi cominciavano a cedere ed a cadere all'interno della casa. Si sentiva odore di carne bruciata, erano i conigli e le galline. Il tempo passava, ci si aiutava tutti quanti, si cercava di entrare nelle abitazioni, di prelevare qualsiasi cosa e portarla fuori, all'aperto... Proprio in questa circostanza, mentre mi trovavo vicino al ciuchè (campanile), ricordo bene un fatto. Erano ormai le cinque- sei di sera, un tedesco, con la mitragliatrice puntata verso la collina, era appostato in fondo alla piazza, praticamente sulla “riva” che vede il rio Lupo, all'improvviso una raffica interminabile. Da dietro delle “capale” (covoni) era sbucata una persona (la riconobbi), correva sulla stradina, le pallottole “picchiavano” a pochi centimetri dai suoi piedi, ma non lo beccarono, riuscì ad infilarsi nella folta vegetazione ed a scappare. Proprio in quell’istante sentii gridare in tedesco, le voci provenivano dalla casa che si trova davanti all'attuale biblioteca.
Casa di mio padre, l'unico trave "sopravvissuto" all'incendio, sono ben visibili, ancora oggi, i segni del fuoco |
Farigliano,
pzza. San Giovanni, a sinistra (A) la casa di mio padre,
mentre a destra (B) è
situata la terrazza dove erano radunati ufficiali tedeschi e fascisti locali
|
Sulla terrazza di quella casa erano radunati parecchi ufficiali tedeschi ed alcuni fascisti locali. Capii che volevano sincerarsi dell' accaduto con il militare, il quale fece un cenno con la mano, come per dire... tutto a posto. Tra le varie persone presenti, una sembrava avere parecchia “confidenza” con gli ufficiali nazisti. Ero lì, a poche decine di metri, li osservavo. Si trattava dell’allora responsabile della centrale elettrica del Navetto, risiedeva a Farigliano ma era un forestiero, un fascista convinto, non per nulla suo figlio, che conoscevo abbastanza bene dato che eravamo quasi della stessa età, si chiamava Benito. Mi sono sempre domandato e penso anche molti altri, sul perché arrivarono questi soldati proprio a Farigliano e se qualcuno avesse appoggiato il tutto con “una buona parola”. Se non ricordo male, poco tempo prima, i partigiani avevano lanciato delle bombe in “casa” (intesa come centrale) di questa persona.
Sono convinto che
questo personaggio abbia avuto un ruolo tutt’altro che marginale in questo
triste episodio. Ma forse sbaglio...
Verso le sette, i tedeschi andarono via, gli ostaggi oltre il ponte erano stati liberati, anche mia sorella tornò a casa. Dalle colline gli uomini scesero in paese, chissà quale scenario da lassù. Mio padre tornò dalla Carpenea con la sua bicicletta. Insieme cercammo di spegnere gli ultimi focolai, io con i secchi e lui con la “pompa dell’acqua” (irroratrice a spalla) ma ormai non c’era più nulla da spegnere. Era notte, forse c’erano le stelle o forse no, ma dalla mia camera potevo toccare il cielo con un dito».
Verso le sette, i tedeschi andarono via, gli ostaggi oltre il ponte erano stati liberati, anche mia sorella tornò a casa. Dalle colline gli uomini scesero in paese, chissà quale scenario da lassù. Mio padre tornò dalla Carpenea con la sua bicicletta. Insieme cercammo di spegnere gli ultimi focolai, io con i secchi e lui con la “pompa dell’acqua” (irroratrice a spalla) ma ormai non c’era più nulla da spegnere. Era notte, forse c’erano le stelle o forse no, ma dalla mia camera potevo toccare il cielo con un dito».
Casa Prato, Via Roma, Farigliano |
Alla fine della giornata si contano due civili uccisi e
circa 250 case incendiate, tra cui anche quella dei mie nonni Marchin (Prato) e Tonia
che avevano la bottega di generi alimentari in via Roma.
Sono convinto anch'io che questo capo-centrale, fosse, una “Fonte fiduciaria attendibile” ( come usava scrivere la GNR nei suoi notiziari).
Inoltre questi fascisti si fecero notare per
alcuni “rastrellamenti” in paese: giovani fariglianesi erano stati malmenati e
costretti ad arruolarsi tra le loro fila. Alcuni inviati alla caserma di
fanteria di Alessandria, altri a quella degli alpini di Aosta e altri ancora
nella Polizia ausiliaria di Cuneo. Ma non trascorse molto tempo che tutti
rientrano a Farigliano avendo disertato dalle forze fasciste.
Gino Voena |
“Mezzogiorno. Esplode su nel cielo limpido e ventilato del paese la prima granata tedesca. Fanno seguito le raffiche velocissime della “sega di Hitler” e quelle più cadenzate della mitragliera da 20 mm, crepitano i tà-pum e le machinenpistolen.
Farigliano,
l’attuale corso Umberto (un tempo via della Stazione).
Le prime mitragliate dal piano della Mellea, colpirono
queste case
|
Il polverone sollevato dalla colonna tedesca, circa cinquecento uomini, un battaglione proveniente da Fossano che scendeva lento da Mellea, aveva messo in allarme tutto il paese dieci minuti prima.
I tedeschi! I tedeschi!: questa semplice parola gela i visceri e ingrigia i volti più abbronzati; porte e finestre si chiudono secche, le madri chiamano i figli, giovani e anziani si buttano in corse affannose su per la collina, ci si dispera per il figlio o il marito fuori casa e quelli fuori casa vedono tutto dalla collina, attanagliati dall’angoscia per i loro cari alla mercé dei barbari tra le mura del paese, mentre le nuvolette rosa-grigio degli “sdrappel” infiocchettano i campanili.
Sparano sempre, quintali di munizioni contro il nostro povero paese dalle strade lastricate a “sternia” con i rigagnoli al centro, senza fognature e senza acquedotto, contro le povere case, le più recenti dell’ottocento e quasi tutte con il fienile e la stalla, e spareranno fino a sera, mentre contro di loro non viene sparato nemmeno un colpo. Perché? Bisognava dare una lezione ai “banditi” sulle Langhe e in quel momento non disponevano di migliaia di uomini, come sempre quando si trattava di rastrellare. Ci voleva una lezione perché pochi giorni prima i partigiani di Mauri avevano fatto saltare i ponti della provinciale e della ferrovia. Anche Piozzo subì la “lezione” reo soltanto di affacciarsi sulle Langhe come un balcone.
Guadarono il Tanaro, in quel momento quasi in magra, con una manovra a tenaglia, e sempre sotto la protezione delle armi pesanti che sparavano anche ai cani randagi; entrarono in paese dalla stazione a ovest e dal Rio a est. Con angoscia e terrore li sentivamo avvicinarsi al centro del paese, sentivamo le raffiche delle armi portatili avvicinarsi sempre di più alla piazza: e impiegarono due ore, sgranarono migliaia di proiettili e contro di loro nemmeno un colpo di doppietta. Su tutto il territorio comunale partigiani non ne esistevano, a quel tempo si tenevano più in alto verso Belvedere e Murazzano, ad almeno dieci chilometri di distanza. Sentimmo le grida che in tedesco sembravano più terribili e i colpi dati col calcio del fucile contro le porte. Toccò alla nostra, entrarono e salirono nelle stanze da letto alla ricerca del denaro e dell’oro; sentiamo provenire una fucilata di sopra e, con una mano sulla bocca di mia sorella che stava per urlare, restammo lì al buio della cantina a sentire quei passi orribili sopra di noi, con il terrore che ci piovesse addosso una bomba a mano lanciata per facilitare l’esplorazione di quel buco che, chissà, per loro poteva contenere “banditi”.
Se ne andarono. Mia zia, mio nonno, mio padre, furono portati sulla piazza come tutti gli altri trovati nelle case. Anche Ignazio, il povero paralitico, immobilizzato a letto dalla prima guerra mondiale, fu appoggiato a terra contro un muro assieme a suo padre già moribondo, (sarebbe morto pochi giorni dopo). Rilasciarono mia zia e il nonno, mentre mio padre fu caricato di due enormi radio asportate da qualche casa e avviato come ostaggio oltre il ponte. La zia ci avvisò che dovevamo evacuare perché avrebbero bruciato tutto. Portammo in cantina tutto il possibile, biancheria, vestiti, materassi; su nelle camere da letto scoprii il perché del colpo: era partito nel tentativo di sfondare col calcio del fucile un armadio chiuso a chiave e si era conficcato nel muro di fronte. E se avesse colpito un kamerat? Quello là mica andava dire che l’aveva ammazzato lui. Non oso pensarci. Avevano rovistato ovunque alla ricerca di soldi e avevano in filato nei cassetti e negli armadi rotoli di carta tricolore, per mostrare alla seconda ondata dei razziatori che si trattava di “patrioti” e così far appiccare il fuoco. Caricammo il carretto di vestiti e ci avviammo fuori paese mentre una massa di donne piangenti cariche di fagotti con i bambini attaccati alla sottana venivano sospinte alla periferia. “Oltre il ponte” era l’ordine. Mia madre, mia sorella e il fratello più piccolo con carretto riuscirono a deviare verso la fornace, io e l’altro fratello con una cesta enorme fummo sospinti verso la ferrovia e lì vedemmo le prime case bruciare. I travi infuocati rovinavano sulla strada, ai lati c’erano delle pecore bruciate; vedemmo anche Taricco steso al suolo ormai da due ore. Il parroco don Cafasso con il sacramento usato per l’agonia distribuiva conforto e preghiere ai parrocchiani e lanciava anatemi contro gli “unni”, lui, che due anni prima era ritornato dal confino fascista, dava la benedizione dei moribondi a tutto il paese.
Un giovane di Viaiano veniva lapidato con le pietre della ferrovia mentre correva sulla massicciata e lo chiamavano “bandito”. Io mi dicevo: “quello ora lo ammazzano”. E ci spingevano sempre avanti “oltre il ponte”. Quel ponte mezzo diroccato con un locomotore immobilizzato al centro. E quel ponte diventò per me un confine. “se passiamo di là” pensavo “o si va in Germania o ci fucilano”. E fu allora che ci buttammo giù per la scarpata, io, mio fratello e la cesta, in un momento che non li avevamo alle costole. Restammo nascosti in fondo al pendio non so quanto tempo e poi cercammo di allontanarci, ma attraversando un tratto scoperto venimmo avvistati da un “crucco” sul ponte. Ci puntò il fucile contro e gridò “Alt!”, mi dissi “ora spara”. Non sparò. Urlava “Lust! Lust!” accennando a farci risalire. Sul ponte, sempre urlando, nella sua lingua, mi diede un calcio nel sedere con quegli stivali così “guerrieri” che mi sollevò da terra. Ringraziai che mi aveva solo dato un calcio, poteva anche farmi fuori.
Di là dal ponte, vicino al cavalcavia, un autoblindo sparava con la mitragliera in direzione della collina; a dieci metri di distanza, addossati ad una rete metallica, i bimbi dell’asilo urlavano, la faccia sporca, rigata di lacrime, le mutandine stese ad asciugare sulla rete, mentre loro si aggrappavano alle suore che pregavano. Più in là una massa di oltre duecento persone, in maggioranza donne e bambini, contemplava impotente la alte colonne di fumo nero che salivano dal paese; ogni tanto qualche donna vedeva la propria casa prendere fuoco, correva contro lo sbarramento dei nazisti e veniva ricacciata indietro brutalmente. Veniva consolata e poi toccava ad un'altra donna vedere bruciare la propria casa e poi ad un'altra ancora, finché formavano un solo grappolo piangente.
L’agonia del paese che bruciava durò tre ore e tre ore durò l’agonia di chi assisteva impotente. E se qualcuno avesse sparato sulle colline? Sarebbe stato un macello, una Marzabotto piemontese. Ma nessuno sparò contro le “teste di ferro”.
Verso le cinque e mezza il comandante tenne un discorso, immediatamente tradotto dall’interprete; disse che la colpa era dei banditi, che ora i bimbi, le donne e i vecchi potevano andare e che facessero attenzione perché “forse qualche casa bruciava ancora”. Per noi non c’era “forse” vedevamo tutto il paese in fiamme. Alla fine si contarono duecento cinquanta case incendiate. Io sui quindici anni ero il vecchio dei giovani e mio padre sui quarantacinque era il più giovane degli anziani. Sotto quell’enorme cestino che ci eravamo trascinati fin là io e mio fratello riuscimmo a passare lo sbarramento di controllo. Chiamai mio padre rimasto là come ostaggio, ma un tedesco mi disse: “papà non andare, papà qua restare”. Riuscì poi a passare caricandosi sulle spalle Ignazio, il paralitico, che chissà come, avevano trascinato sin là. Durante il cammino verso il paese, Ignazio, a cui quegli elmetti ricordavano il lontano ’18, mostrava i pugni ai “crucchi” mugolando frasi incomprensibili e mio padre gli diceva: “stai zitto, tu sei già mezzo moribondo, ma io debbo vivere”.
Ci dissero che tutto era finito ma le truppe, ormai ubriache per il vino bevuto direttamente dalle botti dopo che le avevano sforacchiate a colpi di mitra, si abbandonavano con gioia all’incendio. Arrivava un gruppo di soldati e dava fuoco, ne arrivava un altro (forse sobrio) e aiutava a spegnere. Alle sei arrivai alla piazza: la mia casa non bruciava, ma intorno era tutta una fornace, le donne ritornate invocavano aiuto. La “censa” davanti a casa mia fu incendiata proprio allora, cercai di spegnere e un tedesco mi aiutò, ci riuscimmo. Arrivò un altro e incendiò di nuovo e bruciò tutto. Offrii una bottiglia di marsala ad un ufficiale dicendo che nella nostra casa c’era mio nonno vecchio e malato e lui scrisse sulla porta – nich feuer – e altre parole e questo ci salvò l’abitazione. Ma altre donne chiamavano, centinaia di case bruciavano e portai tanti secchi. Con gli abiti e i capelli bruciacchiati uscii da una casa dove crollavano i soffitti. Le richieste di aiuto erano tante e la gente poca, finché verso le otto un razzo attraversò il cielo ed i soldati sparirono a poco a poco. La colonna germanica affrontò le salite verso Carrù e gli uomini rientrarono dalle colline a rotta di collo chi a piangere sui muri e travi fumanti, chi ad aiutare i vicini. Esausto, finalmente rifiatai e ripresomi mi trascinai fino fuori paese dove mi attendeva il resto della famiglia, portando con me il minestrone del mezzogiorno ormai acido per il gran calore; poi mi addormentai in una cesta sotto le stelle e i riverberi rossastri degli incendi mentre un aereo ronzava su di noi, forse contemplando lo spettacolo, forse scambiando i fuochi per segnali di lancio ai partigiani. Ma quei segnali gli saranno parsi troppo e troppo grandi. Se ne andò”
Rino Viotto |
La testimonianza qui riportata è ripresa
dal piccolo fascicolo: 1944-1994 – 50° anniversario dell’Incendio di Farigliano
(Comune di Farigliano).
«Mezzogiorno era suonato da poco.
La maggioranza degli abitanti sedeva a tavola per consumare il misero
pasto che le ristrettezze della guerra rendevano sempre più magro.
Un improvviso boato: nel cielo di Farigliano, una prima granata
esplodeva, seguita da altre; poi alcuni colpi di cannone sparati da un carro
armato, quindi raffiche di mitragliatrice che crivellavano i tetti.
Un grido angosciato si diffuse per il paese: “La repubblica, i
tedeschi!”
Come è noto, il grido di “repubblica” era solito indicare i fascisti
della sedicente repubblica sociale nelle loro molteplici versioni armate:
Guardia Nazionale Repubblicana, Brigate Nere, SS italiane, Reparti Arditi
Ufficiali, ecc. ecc.
Qualcuno, affacciatosi lungo la via
che portava alla stazione, aveva scorto una lunga colonna di soldati che
stava prendendo posizione con le armi automatiche al di là del Tanaro. Ne
conseguì un fuggi fuggi generale. I giovani renitenti alle chiamate della
“repubblica” si buttarono alle colline, dopo essersi muniti di un tozzo di
pane; i più anziani spinsero il bestiame alla campagna per sottrarlo a
possibili requisizioni; le donne nascosero i pochi preziosi di famiglia, ricordo
di momenti felici, ed il poco denaro gelosamente custodito.
In tanto trambusto, molti finirono di saltare il pasto, mentre il
rumore degli spari andava crescendo. Poi, d’improvviso, un silenzio inquietante
subentrò a tanto fracasso.
Un’ attesa spasmodica pervase il paese.
Ma ecco apparire le prime pattuglie di soldati ( si appurerà
successivamente trattarsi di SS tedesche, la maggior parte di origine
altoatesina) che, impugnando le pistole mitragliatrici, facevano il loro
ingresso in paese sparando all’impazzata. Tra il primo colpo di mortaio e le
raffiche delle armi automatiche era trascorso poco più di mezz’ora: un tempo di
attesa tale da sembrare un’eternità. I tedeschi –si saprà più tardi-
provenivano da Fossano ed erano stati trasportati con vari automezzi; un loro
reparto si era diretto anche a Piozzo. L’intento degli occupanti era quello di
infliggere una lezione agli abitanti dei paesi Farigliano e Piozzo per il loro
appoggio alle formazioni dei “ribelli”; ma a Piozzo, paese assai lontano dai
centri di gravitazione dei partigiani, quale colpa veniva addebitata?
Farigliano, il vecchio ponte sul Tanaro |
Ma di “ribelli” in paese non ce n’era e gli inermi abitanti cercavano
riparo dalle pallottole nella campagna o nelle cantine delle loto abitazioni.
Nel frattempo, le pattuglie avanzavano e si disperdevano per le strade
dell’abitato. Ogni casa, ogni stalla veniva visitata, anche i pollai ed i
porcili erano l’obiettivo di questi invasori spinti da intenti predatori.
Difatti, molti di costoro erano alle prese con del bestiame rubato che
tentavano di portare al di là del fiume.
Nel trambusto, una fila di bambini piangenti, accompagnati dalle suore,
venne diretta oltre il fiume, quasi spinta a forza da alcuni soldati con le
armi spianate su quegli innocenti. Anche donne e anziani erano stati prelevati
e portati sotto scorta nei pressi della Officina Taricco, al “Martinetto”,
oltre il ponte distrutto. Così si ricorreva ad un sistema già collaudato in
altri paesi invasi dai tedeschi, al fine di evitare possibili reazioni da parte
dei partigiani.
In questo luogo di raccolta furono ammassate le bestie sottratte ai
loro proprietari, che vennero caricate su automezzi abilmente occultati al di
là della ferrovia.
Sulla folla piangente e implorante, con la sua alta statura, come
impietrito, quasi ieratico, si erse il parroco, pure lui rastrellato, che cercava
di rincuorare la gente ammassata e sempre più numerosa.
Ma ecco le prime fiammate. Non si comprese all’istante esattamente di
che cosa si trattasse: se fossero segnali convenzionali scambiati dalle truppe
intente al saccheggio o pallottole traccianti. Ma presto la realtà apparve nei
suoi aspetti terrificanti.
Cominciarono a levarsi colonne di fumo e si udì il crepitio del fuoco.
Gli incendi prima isolati e sparsi diventarono sempre più fitti. Il sole stava
calando e lo spettacolo era tragico. Il gruppo di anziani tenuti in ostaggio
assisteva ad una scena dai contorni apocalittici. A sinistra, sulla collina,
bruciavano le case di Piozzo; in basso, oltre il Tanaro, tutto un paese era
divorato dalle fiamme. Tra i bagliori degli incendi, si scorgevano uomini e
donne correre come forsennati con secchi colmi d’acqua per un primo tentativo
di spegnere o roghi, mentre i tedeschi si allontanavano con il bestiame
razziato. Al rientro nell’abitato ci si accorgerà che due poveri vecchi erano
stati trucidati: l’uno Giovanni Mancardi, detto Balin, di 82 anni, giaceva
davanti alla propria abitazione colpito mentre sedeva sul muricciolo del
“cantone”, forse per osservare ciò che accadeva; il secondo, Giovanni Taricco,
detto il Martinet, di 86 anni, era stato ucciso mentre rincasava dalla propria
officina. A chi rientrava in paese, si presentava uno spettacolo tremendo.
Era una corsa affannosa, spasmodica, fino alla propria casa per
conoscere le sorti dei congiunti; gruppi di persone sostavano all’addiaccio in
piazza S.Giovanni, in mezzo a balle di paglia, privi ormai di ogni loro bene.
Non si piangeva più; non vi erano più lacrime da versare.
Il giorno seguente il panorama sarebbe apparso ancor più drammatico. La
maggior parte dei fariglianesi aveva trascorso la notte impegnata a spegnere il
dilagare degli incendi. Serpeggiava tra quella gente, intirizzita e coperta di
fuliggine, la rabbia per il gesto di un nemico che era ricorso alla punizione
contro tutti, non riuscendo a contenere l’azione dei partigiani.
Un fumo acre si spandeva nell’aria e ci vorranno parecchi giorni perché
scompaia del tutto.
Ad esso si mescolava l’odore di bruciato, di continuo alimentato da
piccoli focolai non ancora del tutto spenti. case coi tetti crollati si
affiancavano ad altre annerite dagli incendi e dal fumo; talune abitazioni
presentavano veri e propri crateri, mentre altre apparivano con occhiaie
funeree perché prive di porte e finestre distrutte dal fuoco: 240 edifici erano
stato distrutti o aggrediti gravemente dalle fiamme. Oltre al problema della
casa, pesava il dramma della perdita, a volte totale, del bestiame, elemento
indispensabile per sopravvivere in una situazione di isolamento determinata dai
ponti distrutti e dalle misure di rappresaglia dei nazi-fascisti, che
consideravano la zona rifugio di “banditi”, e quindi ne impedivano il
rifornimento dei pochi generi alimentari già razionati. Infine, esisteva il
problema degli sfollati da Torino [...]: si trattava di persone che avevano già
perso la propria abitazione in città, prive di tutto e ora anche del rifugio
nel paese di sfollamento.
In tanto disastro e fra tanta rabbia, si fece strada il sentimento di
solidarietà. Su iniziativa del parroco, ci fu una raccolta di viveri e
indumenti depositati nei locali del comune (la canonica era quasi inagibile a
causa del fuoco), e quindi distribuiti ai bisognosi. Una gara tra poveri per
aiutare i più derelitti. Degnamente seppelliti i due morti della giornata, si
iniziò l’opera di ricostruzione.
Venne subito trovato un letto a chi aveva perso la propria dimora e
numerose famiglie ospitarono chi era in difficoltà. Si trasferirono fuori
dall'abitato le macerie delle case, i muri pericolanti vennero abbattuti, si
provvide a puntellare tetti e cornicioni ancora riparabili.
Così, pur con paurose ferite aperte, la vita riprendeva, anche se la
lotta non era terminata e se nove mesi dividevano ancora quel momento dal
giorno in cui si sarebbe tornati alla normalità in un nuovo clima di libertà. Può
darsi che per le generazioni ultime quel terribile giorno, forse uno dei più
lunghi nella storia millenaria di Farigliano, sembri soltanto una lontana e
brutta favola o il parto di fantasie malate per le memorie truci che evoca. Si
tratta, invece, di uno dei ricordi più tristi della realtà tristissima che fu la
vicenda dell’occupazione tedesca e del regime fascista nei venti mesi tra 8
settembre 1943 e il 25 aprile 1945».
Il ricordo dell' avv. Camillo Piacenza
In occasione del secondo anniversario
dell'incendio di Farigliano, l'avvocato Camillo Piacenza ricordava con un
articolo su La Vedetta, quella triste giornata.
Ecco cosa scriveva su La
Vedetta (settimanale della DC cuneese) del 12 luglio 1946.
Articolo completo in Documenti n°23.
Articolo completo in Documenti n°23.
Il settimanale La Vedetta del 12 luglio 1946 |
"La notte dal 3 al 4
luglio 1944 era stato fatto saltare dai partigiani il ponte della
provinciale Carrù-Farigliano sul Tanaro. Il mattino seguente veniva
bloccato dai partigiani, sul ponte ferroviario affiancato al primo,
il treno viaggiatori delle ore 7, danneggiato il ponte e reso
inservibile il locomotore, così che i viaggiatori furono costretti a
proseguire per Cavour od a ritornare indietro verso Torino. Il
convoglio rimase -e vi rimase per parecchi mesi- inchiodato sul
ponte.
Si era in pieno regime
repubblichino-nazista ed il tallone tedesco maggiormente gravava sul
nostro paese disgraziato. Di pochi giorni prima era pure l’avviso
di Kesselring alla popolazione civile che avrebbe pagato colle sue
donne, i suoi bambini ed i suoi averi gli atti di sabotaggio e di
insidia dei nostri partigiani alle spalle e contro le truppe
germaniche combattenti per « la gloria d’Italia »!
Questa la premessa.
Ecco il fatto:
il primo, in ordine di
tempo, in cui Farigliano ha lasciato brandelli di carne e spaventose
mutilazioni, delle quali ancora si è riavuto (e chissà quando potrà
riaversi), che riconferma di cosa sia capace la «teutonica rabbia»:
dalla rea progenie, degli oppressor discesa, cui fu prodezza il
numero, di cui fu ragion l’offesa, e dritto il sangue, e gloria il
non aver pietà».
Chi narra aveva ritenuto
prudente rifugiarsi da due giorni, in un suo podere, di dove, dalle
strapiombanti rupi sul Tanaro, si apre, a chi guarda, la stupenda
visione della vallata del Tanaro verso Carrù e della pianura
cuneese, visione chiusa, in lontananza, dalla violacea cerchia alpina
di incomparabile bellezza. Si snoda, quasi ai piedi la strada che da
Carrù, per la Mellea, accede a Farigliano, a mezzo del ponte, che
come si disse, era stato fatto saltare.
Da questo «poggio» ha
assistito all’assalto della indifesa Farigliano, dove gli erano
pure rimasti: la madre, la moglie e la sorella con tre figli.
Alle ore 11 circa, una
gran nube di polvere sulla Carrù-Farigliano denuncia l’avvicinamento
di una lunga colonna di automezzi. Si ferma all’altezza del
Santuario della Mellea: non si distingue chiaramente, ma senza dubbio
è una colonna militare tedesca e vi debbono essere autoblinde. Dopo
un breve «alt» prosegue per Farigliano e, all’altezza delle case
dette «Calcinera», si ferma e, senz’altro, così, come se oltre
il fiume vi fossero ridotte anglo-americane, inizia il
cannoneggiamento del paese da parte di cinque o sei autoblinde; senza
preavviso, senza tentare nemmeno di parlamentare colle autorità
locali.
E’ un tiro rapido,
fatto anche, con proiettili incendiari che serrano in un cerchio di
ferro e fuoco tutto l’abitato. Dense colonne di fumo, qua e là
provano che il fuoco è già stato appiccato, dai proiettili, alle
prime case.
Dura circa un’ora, fino
alle 12.30 circa: poi il tiro si allunga, batte le colline
circostanti e si vedono chiaramente le truppe tedesche, in perfetto
assetto di guerra, guadare il fiume, circondare il paese con tattica
perfetta e muovere all’assalto… di vecchi, donne, bambini
rintanati nelle case (gli uomini erano fuggiti tutti), dalle quali li
cacciano per prenderli, parte in ostaggio e parte, per lasciarli
convergere verso la parte alta del paese. Furono presi in ostaggio ed
avviati oltre il fiume, facendoli passare sul diruto ponte della
ferrovia: donne, bambini, -di chi scrive furon presi in ostaggio la
moglie ed i quattro figli – due sacerdoti, persino le suore ed
bambini dell’asilo infantile!
Si iniziò quindi il
saccheggio delle case e poi il sistematico incendio del paese. Furon
date alle fiamme ben novantadue case delle quali una notevole
parte andò completamente distrutta e danneggiate centocinquantatre
famiglie, delle quali molte, troppe persero tutto: mobili, arredi,
indumenti di vestiario, letto e tetto; furon poste letteralmente sul
lastrico. La casa parrocchiale subì colle altre e prima delle altre
l’azione purificatrice del fuoco!; e nel gran braciere andarono
distrutti mobili, indumenti personali ecc. del Rev. Teologo arciprete
don Carlo Cafasso e del Vice Curato, salvato per puro caso la maggior
parte degli arredi sacri.
Intanto dalle colline
circostanti erano partite raffiche di mitragliatrici da parte dei
partigiani e le autoblinde continuavano a sparare su di esse,
incendiando anche covoni di grano, sempre alla ricerca dei «ribelli».
Così fino alle 17 circa,
dopo la quale ora, accertato di avere domati… i «banditi» di
Farigliano e l’inerme popolazione, accertati che, nel frattempo
nessuna perdita era stata lamentata nelle gloriose truppe tedesche,
così eroicamente comportatesi negli scassi delle case, nel
saccheggio, negli incendi, liberarono gli ostaggi che si
precipitarono negli stabili bruciati per salvare almeno lo stretto
indispensabile. Ma ancora furono impediti dalle armi germaniche che
non si peritarono di puntarsi contro le stesse donne ed i fanciulli
che, disperatamente cercavano almeno di salvarsi una coperta ed un
materasso per la notte. Non solo, ma è accaduto (come a certo Fia
Andrea di Sancasciano [San Casciano]) che, man mano che, dalla casa
in fiamme, si buttavano, dagli abitanti, le masserizie nell’aia per
salvarle, i gloriosi nazisti sistematicamente vi appiccavano il
fuoco.
A certe case diedero
fuoco ben tre, quattro volte di seguito, per particolare privilegio,
come a quella di chi scrive, giustificando tale tenacia, prettamente
teutonica, colla frase: «casa ribelli che non brucia abbastanza! »
e bruciò infatti con tutto quanto conteneva.
Fortuna che il
proprietario non v’era, perché avrebbe fatta bella mostra di sé
–fucilato ben inteso- ad uno dei pali della piazza principale del
paese per dare un esempio alla popolazione…
Il tutto per
dichiarazione ed ordine dello stesso capitano tedesco comandante
delle SS che aveva guidato questa magnifica azione di guerra.
Conclusione: due morti, novantadue case distrutte, 153 famiglie senza
tetto e questo per un paese di circa duemilacinquecento abitanti,
comprese le frazioni non è poco".
Note
1 Ettore Carena, dal 15 luglio 1944 fece parte degli Autonomi di Mauri nel distaccamento dello Sbaranzo (Clavesana)
3 Rino Viotto in
Autonomi, N°1, 1° semestre
2001. Anche mio padre ricorda la presenza
dei “repubblichini” nella centrale.
4 Aldo
Spinardi , No Kaputt, A.S.E. Torino, 1957, pag.186
5 www.facebook.com/gigliola.voena/posts/10204561242860706
5 www.facebook.com/gigliola.voena/posts/10204561242860706
Testimonianze interessantissime. Grazie per la pubblicazione!
RispondiEliminaGrazie! Ciao
RispondiEliminaBel
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